L'azienda

Il Redattore Capo del Corriere della Sera Giangiacomo Schiavi
“A seguire l’articolo di un amico di famiglia che racconta di una storia vera…”
Dal quotidiano Libertà del 23 ottobre 2008: Gino Brandazza, tradizione e modernità.

L’ho cercato in una foto in bianco e nero, tra i ricordi di un’estate magica da almeno quarant’anni fa.

Lui non c’è. “Il Gino” non è in posa con gli amici, non è nell’aula consiliare con il gruppo che a Gragnano ha inventato “il piccolo maracanà”.

Era fuori, mi hanno detto, arrampicato su una scala a tirar fili, con la sigaretta che fuma appesa al labbro mentre la brace si piega.

Lavorava. Come sempre. Controllava luci, cavi, le prese elettriche di quel bazar improvvisato che, anche per merito suo, è diventato un famosissimo torneo notturno di calcio. Si nasce col destino segnato: il suo non era quello di mettersi in posa. Gino Brandazza doveva correre, perché c’era sempre qualcuno che lo chiamava. E lui correva con un cacciavite in mano, un televisore da consegnare, una bombola a gas che finiva sempre, neanche a farlo apposta, all’ora dei pasti. Mangiava in piedi e poi saltava sulla bicicletta o sul furgoncino e qualche volta si prendeva un intervallo, l’unico di una giornata che non finiva mai: il caffè e il ramino al bar Gatti, nella piazza della Chiesa, con una compagnia di canto che adesso non c’è più.

Aveva un piccolo negozio di elettrodomestici, ma vendeva di tutto dall’ago al milione. E un distributore di benzina: Caltex, poi Mobil. Dovevano spaccarsi le gambe lui e la moglie per star dietro ogni richiesta, soddisfare i clienti, contattare i fornitori, garantire l’assistenza. Ma senza fatica non nascono le imprese: lui ne aveva in mente una originale, quasi ibrida, locale e insieme globale. Voleva allargare il magazzino, puntare sulle grandi marche, creare il polo degli elettrodomestici sul territorio senza diventare ipermercato.

Una “missione impossibile” negli anni del gigantismo commerciale, degli euromercati e dei discount che hanno travolto e spazzato via migliaia di piccoli negozi.

Gino Brandazza però ce l’ha fatta: con l’aiuto dei due figli, Stefano e Massimo, ha vinto una scommessa proibita nelle scuole di marketing e vietata ai manager targati McKinsley: è riuscito a mantenere l’equilibrio di partenza, a far sopravvivere la tradizione puntando sulla modernità, a vendere mantenendo i prezzi bassi, a offrire il meglio cercando di essere sempre alla portata di tutti. Rinunciando all’apparenza e puntando sulla sostanza ha creato un circolo virtuoso che oggi, con la crisi dei mutui e dei mercati, diventa un modello da studiare per futuri bocconiani: invece di vendere mille televisori e guadagnare cento, se ne possono vendere duemila per guadagnare ottanta. Una visione anomala, innovativa, la sua: temprata da un’idea quasi sociale del commercio e dal vissuto di chi si è fatto le ossa negli anni difficili del Dopoguerra in un paese dove si conoscono tutti: non si può barare. E se funzione si è soddisfatti entrambi, venditore e cliente. E al bar si prende insieme il caffè.

Quando le ditte produttrici di HiFi giapponesi hanno scoperto che il fatturato del negozio di Gragnano batteva quello dei grandi empori delle aree metropolitane reclamizzati sui giornali e in tv, si sono domandate chi era lo stratega, il genio che aveva ideato quel sistema di vendita. Il genio era un uomo semplice, attaccato ai valori che contano, alla famiglia, alla fiducia, al rapporto diretto con il consumatore, a un’etica del lavoro che è anche servizio, sacrificio, fatica personale. Questo spiega il profilo basso, mantenuto rigorosamente anche dai figli. Niente ville a Montecarlo, megayacht, ristoranti di lusso, anche se i fatturati potrebbero permetterlo. E questo dovrebbe insegnare la sua storia a tanti moderni capitalisti di ventura e imprenditori d’assalto: senza un mercato pulito con regole oneste, chiare, c’è solo la bisca, la truffa, l’azzardo. Gino Brandazza non aveva slogan, non faceva nemmeno spot. La sua pubblicità era un passaparola che si chiama fiducia.

Quella che oggi abbiamo perso, e che dobbiamo riconquistare. Di lui ricordo una sola passione intensa: quella per il calcio. La fede nell’Inter, il Gragnano nell’anima, il Piacenza nel cuore. La sua scalata sociale, la domenica pomeriggio, era un posto in tribuna Barriera Genova e poi alla Galleana per vedere i biancorossi. Ogni vittoria del Piacenza lo rendeva felice. Ma era un attimo fuggente. Giù dalla tribuna ricominciava la sua corsa. Con la testa stava già dentro il suo negozio. Io lo sento che bofonchia o ride di gusto. Sembra di vederlo. Ciao Gino, continua il tuo sogno. Gragnano e Piacenza ti devono qualcosa.”

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